Il controllo dei green pass sta dividendo l’opinione pubblica su diverse questioni e rischia di diventare una fonte di stress per una fetta di popolazione spesso messa in ombra: le persone trans. Esse, infatti, oltre al fatto di possedere un nome incongruente con il proprio aspetto, potrebbero essere chiamate ad esibire documenti personali fonte di imbarazzo ed essere costrette a fare outing senza desiderarlo. Il green pass per le persone trans è una questione delicata.
Partiamo da un episodio cui ho personalmente assistito e di cui ho raccontato anche sui miei social.
Ieri il tizio del controllo greenpass ha umiliato una ragazza accusandola di averne uno falso. Davanti a tutti.
— VITTORIO G. (@LoPsihologo) August 11, 2021
La ragazza era trans, con nome non ancora corrispondente all'aspetto.
Sono dovuto intervenire io a fargli una mini lezione di umanità.
Formateli sti dipendenti.
La stessa situazione accadeva anche prima del green pass, tempo addietro, su un treno. Una passeggera esibiva l’abbonamento al capotreno e questi, notando l’incongruenza tra il titolo di viaggio (col nome al maschile) e l’aspetto della ragazza, chiedeva di visionare il documento di identità, spronandola a gran voce: “questo abbonamento ha un nome maschile, lei è una donna, mi mostri il documento!”. In modo tale che tutti seppero che quella ragazza era, in realtà, una ragazza transessuale. Chiedere un documento d’identità, pratica non discutibile, in quel caso fonte di grande stress per i modi in cui il capotreno lo aveva fatto: zero tatto, zero privacy e facendo un outing non desiderato dalla ragazza.
Il green pass per le persone trans può essere un incubo, ma non è un fenomeno nato ieri, purtroppo.
È da poco entrato in vigore l’obbligo di esibire in Green Pass in alcuni esercizi. Basta presentare all’addetto ai controlli il proprio QR code da scansionare tramite un’app e il gioco è fatto. Ma non è così semplice per tutti. Il codice personale, infatti, reca i dati anagrafici della persona e per alcune persone i propri dati anagrafici non sono così scontati come per tutti gli altri. Per Mario Rossi, il fatto di chiamarsi Mario Rossi è scontato ed automatico come respirare. Mentre per Sabrina, che nacque Giovanni, non è così.
Le persone che si sottopongono all’iter di riattribuzione di genere non se la passano bene in quanto a documenti. Il loro documento d’identità, infatti, non cambia fino a che non sarà terminato tutto l’iter burocratico, che richiede spesso diversi anni. Per Sabrina, ragazza trans nata maschio, il percorso non è facile: quando potrà assumere una terapia ormonale che la porterà ad avere un aspetto femminile, andrà ancora in giro con i documenti con cui è nata. Sulla carta d’identità sarà ancora Giovanni e come tale dovrà essere identificata. Durante l’iter di transizione, infatti, non vengono rilasciati documenti sostitutivi che possano evitare a Sabrina di vivere lo stress e l’umiliazione di essere identificata come Giovanni quando la stradale le chiede la patente o quando una qualunque autorità le chiede di esibire un documento.
È così che, durante il controllo del Green Pass, l’addetto alla scansione del QR code vedrà davanti a sé una ragazza, Sabrina, ma il suo nome sarà Giovanni. È qui che il green pass per le persone trans fa sentire tutto il suo peso. Sabrina si sentirà molto in difficoltà e a disagio a dover esibire il suo green pass, e avvertirà una forte umiliazione nel momento in cui le verrà chiesto, magari in malo modo, di esibire un documento di identità. È per questo motivo che le procedure vanno eseguite in un certo modo, non alla cieca. L’obiettivo principale deve essere sempre quello di assicurare la privacy degli interessati.
Ma come mai i “controllori” sono spesso così privi di tatto? Questione di carattere? Di stress? Di poca conoscenza della problematica? Carenza di formazione in azienda? Può darsi, ma non si può fare a meno di associare queste condotte a quelle dell’abuso di potere. Il green pass per le persone trans può diventare doppiamente traumatico quando si vedono anche trattate male davanti agli altri.
Philip Zimbardo, psicologo statunitense, condusse il noto “Esperimento carcerario di Stanford”, in cui vennero selezionati degli studenti universitari di età compresa tra i 20 e i 30 anni a cui venne assegnato, in modo del tutto casuale, il ruolo di detenuto o di guardia carceraria. L’università fu allestita come una prigione in piena regola ed iniziò il “gioco di ruolo”.
I detenuti erano obbligati ad indossare divise tipiche di un carcere, su cui era apposto un numero e portavano una catena alla caviglia. Erano chiamati a rispettare le regole molto rigidamente. Le guardie carcerarie, invece, indossavano una divisa kaki, occhiali da sole a specchio per non essere guardate negli occhi ed erano dotate di manganello, manette e fischietto. Potevano scegliere in che modo applicare le regole e come mantenere l’ordine.
Molto presto i soggetti iniziarono ad immedesimarsi in modo estremo nei ruoli che gli erano stati assegnati. I detenuti iniziarono a manifestare sintomi di depressione e comportamenti passivi, mentre le guardie esibivano tendenze sadiche e violente. Già dopo due giorni, infatti, si verificarono i primi episodi di violenza: le guardie, seppur non gli fosse assolutamente richiesto dall’esperimento, costringevano i detenuti a cantare canzoni umilianti, a defecare all’interno di secchi e a pulire a mani nude. I detenuti ben presto iniziarono ad avere episodi di scissione dalla realtà e seri disturbi emotivi.
Visti tali esiti, l’esperimento fu interrotto prima del tempo.
Questo studio confermava la teoria psicologica di Gustave Le Bon secondo cui, in gruppo, le persone tendono a perdere la propria individualità e il senso di responsabilità e ad assumere comportamenti antisociali.
Assumere una funzione di controllo, rappresentare l’autorità, porta ad un processo di “deindividuazione”, diminuendo la consapevolezza di sé e la sensibilità verso l’altro. Tutto ciò che conta, in quel momento, è far rispettare le regole, anche a costo di usare la violenza.
Philip Zimbardo definisce questo fenomeno Effetto Lucifero, per indicare quella condizione in cui l’aggressività è influenzata dal contesto in cui la persona si trova.
Prima dell’esperimento del carcere di Zimbardo, si pensava che l’aggressività fosse un tratto caratteriale interno alla persona, indipendente dalle circostanze. Diversi studi ormai dimostrano che ciò non è completamente vero. Se da un lato una persona porta con sé le sue esperienze personali e i suoi tratti sviluppati internamente, è pur vero che i contesti sociali possono influenzare moltissimo la condotta di ognuno.
Ed è forse proprio ciò che si rischia oggi, con l’obbligo dei controlli da Covid19. Il green pass per le persone trans è un campo scivoloso, in cui spesso neanche gli “addetti ai lavori” sanno muoversi.
Chiedere il green pass è un obbligo, ma assumere comportamenti abusanti ed umilianti è altamente lesivo.
Se sei un addetto al controllo e noti un’incongruenza di nomi tra quello presente sul QR code e quello della persona che hai di fronte, non perdere di vista il tatto e la responsabilità verso l’altro: chiedi di visionare un documento, ma fallo rispettando la privacy delle persone. Chiedi di allontanarvi dalla fila, in modo che gli altri non possano sentire e domanda spiegazioni con gentilezza. Non mostrarti sorpreso se ti trovi davanti ad una ragazza che sul documento si chiama ancora Giovanni (o viceversa), fa parte della vita, è una realtà più frequente di quanto immagini.